giovedì 30 maggio 2013

Un pazzo

La cosa interessante di questi treni squadrati e sbiaditi, mangiati piano piano da pioggia e vento, sono le finestre. Le finestre di questi treni si possono ancora aprire. Si aprono come occhi in mezzo alla notte. Come braccia in mezzo alla tempesta. Ti alzi in piedi, allunghi le mani, ti aggrappi come puoi e tiri con forza in giù il vetro che immancabilmente fa resistenza. Poi, proprio quando stai per mollare la presa, si spalanca di colpo, si lascia cadere, con una ventata che fa girare le pagine dei giornali abbandonati sui sedili, fa andare fuori posto i parrucchini, fa alzare la voce a chi si racconta la giornata.

Il vagone è completamente vuoto. Nessuno, nessuno ad ascoltare il frastuono del mio finestrino, solo io. Fuori è sera e fa freddo, anche se visto il giorno sul calendario, non dovrebbe più essere così. A me piace il freddo, piace l'acqua quando scende come corda, piace il rumore del temporale e le luci che giocano a prendersi. Il caldo no, non lo sopporto, perché poi la gente sui treni apre i finestrini. E sai che baccano. Un casino, giornali, capelli, cappelli, telefoni. Per carità.

L'ultima volta che ne ho aperto uno stavo per lanciarci fuori un astuccio di pelle. L'ultima volta che avrei voluto aprirne uno - ma c'era troppa gente - era per far scendere la capra. Non faccio in tempo ad aprire che vola, poco distante, nel corridoio, un cartoncino, forse una cartolina, l'unica cosa che si lascia disturbare dalle mie mosse. Ritiro su il finestrino, mi alzo e vado a raccogliere quel che ho fatto cadere. Un foglio color panna, dal primo lato che mi viene a mano. È datato il giorno stesso, da una grafia in corsivo, morbida, le consonanti allungate e le vocali tonde.

Ho raccolto le cose più ridicole, preziose, nuove.
Ho trovato oggetti di cui nemmeno sapevo il nome,
come accadeva per i loro proprietari.

Neanche in quei giorni, Vitamia.

Ma io so chi sei. Io lo so chi sei.
So dove stai andando.
E so che non ti puoi permettere di lasciare tutto, sul treno.
Non puoi lasciare il cuore, su un treno.
Non lasciarlo mai sul mio treno.

Ci vediamo, sabato.

P.S. La gamba l'ho lasciata a Sander, sì, il Vecchio.
Dice che potrebbe servire al suonatore stanco,
che riposa attraccato accanto alla sua barca.
Dice che glie ne manca una,
dice che con l'altra tiene il tempo.

Sul davanti una fotografia opaca e ben inquadrata, secondo la regola dei terzi. Un arcobaleno dentro l'altro. In basso, scritto con un pennarello indelebile, di quelli che sanno di buono quando togli il tappo, ma dopo un po' ti fa male la testa: solo i sogni non dormono mai.

È un pazzo. Cosa vuole da me? Come diamine faceva a sapere che sarei salita oggi e proprio qui? Un pazzo. E dov'è? E che diamine dice, e chi si pensa di essere, non sa chi sono, non lo sa per niente. E Sander? Un pazzo. Conosce Sander, chi gli ha raccontato di lui, di me? Insomma l'ha trovato. Sapevo che l'avrebbe trovato, peccato che sabato non prenderò nessun treno, proprio non mi muovo, poco male. Un pazzo. Però se ha scattato lui la foto, almeno ci sa fare. Un pazzo bravo con la macchina e pure con la penna. E i sorrisi, d'accordo, anche con i sorrisi. Ma col cavolo che sabato mi vede, neanche di nascosto. Endstation, bitte alle aussteigen.

lunedì 20 maggio 2013

VITAMIA

Apro gli occhi che è già ora di scendere, il treno si sta fermando, lo stomaco ancora no, siamo in perfetto orario, pünktlich. Raccolgo le mie cose e mi metto in fila per scendere, finalmente. L'aria fredda ti investe una volta scesi i due gradini e rimessi i piedi a terra, borbotta con voce gracchiante, senza perdere un attimo, che i vagoni a cui tocca inghiottirti per l'ultima tratta sono già pronti e affamati. Binario cinque, venti e quattordici, le prime due carrozze vanno solo fino alla prossima stazione - saranno vecchie, saranno stanche, saranno forse solo furbe - muoviti o ti lasciamo qui, tu, la capra e, se insisti, pure i cavoli che porti in valigia.
Mi spetta un posto consumato da troppi sederi, accanto al finestrino, nel primo scompartimento a sinistra - in Fahrrichtung, links, ancora vuoto.
Dall'altro lato del corridoio un uomo e una donna che, rigorosamente a turni alterni, si lanciano occhiate da dietro i propri giornali, aspettano di vedere chi tra loro scenderà per primo.
Il controllore cammina svelto lungo il corridoio, trafficando con la borsettina rossa: vuole vedere tutti i biglietti, alle billette bitte, che è poi anche bello da pronunciare, voglio dire. Signor controllore, io le mostro il mio abbonamento, ma lei ripeta cinque volte e cinque volte più veloce, se ce la fa, alle billette bitte, bitte alle billette. Ce la fa?
Guardo fuori, lo stomaco sembra permettermelo, per il momento. Sono capre, prima, che quasi quasi mi alzo e visto che non gli piacciono gli scioglilingua, per fargliela, tiro il freno a mano, to stop the train e faccio scendere la mia di capra, in cases of emergency. Forse poi seguo il tuo consiglio, just pull down the chain, le lascio anche i cavoli. Poi sono le mucche da cartolina in un verde sconfinato e prepotente, che riempie tutto il finestrino. E in mezzo al verde un cerbiatto che alza la testa al nostro passaggio, le corna di velluto.
Scartiamo la collina, siamo quasi arrivati. Il cielo non sa nemmeno lui come sta, neanche il mio stomaco, la capra però è contenta. L'uomo sta facendo le parole crociate, la donna legge una rivista in francese. Si stanno perdendo uno spettacolo senza pari. Un occhio azzurro sbircia là in fondo, in un cielo nero. Il lago artificiale ferma le piante, le piante guardano il lago, un po' come i due di fianco a me, impegnati ad ignorare il nero, non vedono nemmeno che sopra le loro teste hanno un arco. due. Due archi, uno dentro l'altro, pieni di colori, comparsi in un baleno, è il caso di dirlo. Pieni, da lì a lì, sull'altopiano, verde, verde come prima, più di prima. Immenso, favoloso. E una luce gialla, di quelle tra sole e tempesta. E l'occhio là in fondo, fa l'occhiolino.
Guardami. So essere anche io bella. Posso riempirti gli occhi. Rossogialloverdeviolarancioeblù. Urla, questa città, urla la sua periferia, in tutta la sua innegabile bellezza. Urla forte. Guardami. Ora. Amami. Ora. Un tuono, un lampo e poi sole basso. Una cima piena di neve si fa spazio, gli occhi azzurri sono due.
Siamo arrivati. Mi giro di colpo, i due a fianco a me non ci sono più, sono già davanti alla porta, uno dietro l'altro, lei è stata più svelta. Dicevo, siamo arrivati, no, non lo dicevo io. È un uomo con gli occhiali e una giacca nera sopra la divisa, baffi grossi e occhiali fini. E sotto i baffi forse sorride, forse no. Che diavolo ha lì? Una gamba, dice, una sinistra. Forse finalmente è quella giusta, era nell'altra carrozza. Ma lei non è quello di prima. No, io so recitare la cosa dei biglietti. E so che la tua capra ci sa fare, quando sta sopra la panca. Devi scendere. Mi allunga una mano.
Ha visto, voglio dire, lo spettacolo? Ma lui è già avanti. Intanto il cemento ha inghiottito le immagini, puntuale anche stavolta. Ci sappiamo proprio fare con i treni, anche con l'hockey dice. Okay. Aspetta, prima io. Eppure dicevano che quelli un po' più in là con gli anni conoscessero il bon ton, ma dimmi tu. Salta i gradini, appoggia la gamba, quella finta, e poi mi allunga di nuovo la mano sinistra. Ha un anello al dito e una moglie dove finiscono i binari.
Le donne nelle stazioni, c'è sempre qualcuno che le aspetta, mi dice. Le capre no. O almeno non credo. Adesso vai, vai che è tardi. Ci rivediamo al ritorno, usa i colori per dipingere qualcosa di bello. Venerdì torniamo a casa, non ti preoccupare, avremo altri giorni, vitamia.
Adesso mi sembra di sì, sì, sono sicura, sotto ai grossi baffi, sta sorridendo, sorride anche dietro gli occhiali fini. Solo i sogni non dormono mai. Sparisci.

No, aspetti. Ehi! Si fermi!
Una volta ho conosciuto un tizio,
mi ha detto che il manico di una chitarra,
in fondo, sembra una ferrovia,
è una ferrovia.
Lo so.
Solo i sogni non dormono mai.

Lo so.
(c) 2013 scàja




mercoledì 8 maggio 2013

Il canto del cigno, quello originale


Se fossi un cigno del lago Lemano /
beccherei il pane di mano.
Se fossi un cigno del lago Maggiore /
nuoterei per ore e ore.
Fossi un cigno del lago Sereno /
sarei buono, soprattutto ripieno.

Ma essendo io dei Quattro Cantoni /
non rompetemi..... le uova.

domenica 5 maggio 2013

È a sapere

"È incredibile come si senta già chi è il suo maestro." Così, mi dicono, sentenzia la bacchetta più famosa del Ticino. E al mio "quale dei due?" sentirsi rispondere un terzo nome, totalmente inaspettato. Un nome che trasforma quel "già" in un "ancora". E un "ancora" che vuole più che mai trasformarsi in "àncora".
Non so se in bene o in male, per lui, per voi. So che a me riempie il cuore sapere che nel mio sax abbiate trovato un po' del suo. So per certo che non dimenticherò quello che mi ha dato, umanamente, musicalmente. So per certo che non sarebbe andata così, non l'avessi incrociato su questa strada. E so esattamente che non vedo l'ora di poter lavorare, di nuovo, insieme a lui.

Che abbiate ritrovato un po' di lui,
non solo sul mio collarino.
Questa, questa qui, è la mia vittoria.


domenica 21 aprile 2013

Paris sous la pluie

È solo una volta fuori, questa volta da Paris en Liberté che, di colpo, si viene catapultati in un altro tempo, in un altro luogo; nei vestiti e nei pensieri, nello sguardo (tenerezza, ironia, denuncia) di qualcun altro. Con in mano una macchina fotografica che non è più la tua. E finisci col crederci davvero.








« Les merveilles des tous les jours sont excitants. »
(Robert Doisneau, 1912-1994)








lunedì 18 marzo 2013

Cambiée nagòtt

Ci sono cose che, quando nasci, sono già lì ad aspettarti. Un nome, un cognome. Edifici, città, fiumi, strade. Genitori, fratelli. Sono cose che non puoi scegliere. Alcune sono scelte per te da qualcuno che, si presume, ti vuole bene, altre sono dettate dal caso, dal "per forza di cose". A questa categoria di cose appartengono quelle di cui non ti libererai tanto facilmente o non ti libererai per niente. La stragrande maggioranza di esse condizionerà per sempre il tuo mondo, il tuo modo.

Nella mia "questa categoria di cose" spiccano con prepotenza due compagni di avventura insostituibili e invidiabili, e. Insieme a loro l'immancabile Cameramonk. Senza dover rovistare poi troppo tra il resto mi viene a mano il Cabaret. Sì, il nostro cabaret: intendo quello della Svizzera Italiana.

Quando li ho conosciuti io, a dirigere il traffico c'era (sempre) l'Agostinetti e a far musica Zeno Pianola&band. Lo spettacolo era "A san pò pü", quello del 1994. I pipistrelli erano Angelo, Ezio, Stefan e Franco. Gli attori erano il Paolino e'l Candid che però sarebbe stato parte integrante del Cabaret ancora solamente quell'anno, prima di lasciare spazio al Gibi e alla Giovanna da Rorè. Avete capito? La Giovanna da Rorè, la prima donna a far parte del Cabaret porta il mio stesso nome. Gaudium Magnum, all'alba dei miei quattro anni, finalmente, un barlume di speranza si accendeva: forse, prima o poi, avrei potuto farne parte anche io!

Il mio preferito (tra i preferiti) era lo Stefan, che vestiva - ironia della sorte - i panni del pipistrello giallo. Perché? Pelle: amore a prima vista. Le voci non permettono paragoni, ognuna particolare a suo modo, ma come lui non si muoveva nessuno. Dall'inizio alla fine dello spettacolo, fermo non stava mai, fino a quando una gamba non gli ha giocato un brutto tiro. Dal vivo all'azione non l'ho mai visto, perché mi sono convinta ad accettare l'offerta di presenziare in teatro solo a partire dal 2002: prima, la paura dei "pipistrelli", era troppo forte. Ad ogni modo, proprio quell'anno, Stefan cede la sua bombetta a un volto nuovo che aspettavamo di vedere con somma diffidenza. Il cabaret, nel nostro immaginario, o almeno nel mio, non poteva rimanere e non sarebbe rimasto lo stesso.

Com'è piccolo il mondo, com'è strana la vita, mi ritroverò poi dopo qualche anno a seguire i corsi di ubbidienza in cinofila (dal severo Mattia) con Tobia e il suo padrone, un uomo magro in tuta blu, dai capelli e barba bianchi, dalla mimica inconfondibile e dall'aria familiare. E com'è piccolo il mondo, com'è strana la vita, finirò col conoscere personalmente anche il suo successore verso il quale ormai, parlo anche per voi, abbiamo perso ogni diffidenza. Da quando è arrivato, come ci aspettavamo, il cabaret è cambiato. Non vogliamo fare paragoni, non c'è meglio, non c'è peggio: c'è qualcosa di nuovo, com'è giusto che sia. Uno, penso io, che ha avuto il coraggio di trovare una propria dimensione all'interno di un gruppo già rodato, occupandosi, più che di sostituire, di prendere in consegna: un ruolo, una voce, uno spirito ...un movimento di bacino.

Sono passati quasi sette anni dall'ultima volta che siete andati in scena. E molti di più dalla prima. Ma la vostra genialità è che rimanete sempre attuali, freschi e brillanti. Hanno, avete, voluto farci credere che il Cabaret non esistesse più. La verità è che non è vero e noi lo abbiamo sempre saputo, perché il Cabaret non si può cancellare, così, come fosse una rigaccia a matita. La verità è che una cosa che non esiste più non può riempire il Salone Olimpia, non lo può far piangere dal ridere (batterista compreso), non può scovare, tra simpatici vecchini dell'ATTE, anche volti giovani, non unisce generazioni. Una cosa che non esiste più non fa recitare a memoria tutte le battute al proprio produttore. Una cosa che non esiste più, cari miei, non sta in piedi anche dopo un colpo basso dalla sorte. Una cosa che non esiste più, non fa di tutto per portare uno spettacolo di qualità, pur dovendo subire l'assenza di un Piccolo ma grande elemento. Una cosa che non esiste più, cari miei, queste cose non le fa. Non ne fa nemmeno una.

Come dicevo prima, noi abbiamo sempre saputo che, da qualche parte qui intorno, c'eravate ancora. Abbiamo sempre sperato in un ritorno di fuoco, ma dopo tutto questo tempo, quasi avevamo perso la speranza. Del vostro ritorno ho ancora qualche fotografia che, probabilmente, posterò in un prossimo post, accompagnato da un paio di video che mancano alla carrellata qui sotto (il gran finale, non perdetevelo!!). Si tratta di un piccolo regalo che ho voluto farvi, farci e farmi. Siamo noi (1992 - 1987 -1985, registrati nel 1994), i soliti tre che, grazie alla tecnologia moderna, finalmente, riusciamo ad incontrarvi sul palco. Noi ci abbiamo messo tutto quello che potevamo e speriamo che possa essere un piccolo incentivo a farvi tornare in scena per dare un futuro al Cabaret che tanto ci manca, per far riaccendere l'amore per il teatro, la canzone e la creatività nei ticinesini dei giorni nostri, che non hanno avuto il privilegio di sapere che la realtà col Cabaret è più bella. Questa è l'unica cartuccia per convincervi che posso sparare.

Nümm emm cambià nagott (e la nostra versione arriva, promesso) per pudè cuntinuà cul vost.. e nostar Cabaret. Grazie, mitici.










Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un'altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere. Oggi so che questo si chiama "maturità"; quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre ed in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene. Da allora ho potuto stare tranquillo. Oggi so che questo si chiama "stare in pace con se stessi".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro. Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi. Oggi so che questo si chiama "sincerità".
(Charlie Chaplin, 1889-1977)