venerdì 11 ottobre 2013

Non ho perso l'ombrello


© scàja 2013

Quando ero piccola mi dicevano sempre che al mio vocabolario dovevo aggiungere urgentemente una parola; era “pazienza”. Quanto non la sopportavo! A parte il fatto che era sempre accomodata dentro un rimprovero, già due zeta e una pi messe lì così nella stessa parola, mi davano profondamente fastidio, figurarsi poi se qualcuno avesse voluto concentrarsi sul suo significato. Ho sempre avuto una certa fretta – se così poi effettivamente si può chiamare - di sapere, di fare, di conoscere, di vedere. Oggi come allora non sopporto i tempi morti, quelli sprecati. Va da sé che in quel senso, tendente all'aspettare, “pazienza”, ancora oggi non risulta nel mio tre(c)cani personale. Nessuno mi aveva detto che, forse, proiettandola sulle persone, mi sarebbe tornata utile. E in quest'altro senso, penso di poter oggi affermare con certezza di averle lasciato un posticino verso la fine del tomo. In questi giorni, dicevo, ho capito che effettivamente la famosa parola si era annidata tra “patato” e “pi”, a pagina 372, senza nemmeno accorgermene. Fortuna. Fortuna, d'accordo. Però c'è un problema: dev'essere che anche la mia pazienza ha un limite – oh yah.

Veniamo al dunque. Se la frase più gettonata, la prima che vi viene in mente e che volete dedicarmi (o -ci) con tutto il cuore quando venite a sapere – anche in modo indiretto, peggio ancora! – che il mio migliore amico ha cambiato strada assomiglia, anche solo vagamente a

“Adesso/quando ne compri un altro?”

fatemi il piacere, ma dico,  fatemelo questo piacere dai: state zitti. State zitti, per favore. Zitti. Silenzio. Shut up. Cito. Dasvidania! – ok era per vedere se eravate attenti. Ma dico, vi sentite?
Credetemi, state zitti che è meglio. Che delle vostre parole delicate quanto un trax con un autista versione sezione tromboni alle 3 di notte del sabato rabadan che fa manovra sulla pala, sotto all'albero della swarovski in stazione a Zurigo, nel periodo natalizio, io, posso farne a meno.

Sapete... non ho perso un ombrello, non ho rotto un paio di pantaloni, non mi è saltata una lampadina, non ho bucato una gomma, non mi è caduto il cellulare, non mi è saltata una corda, non ho temperato troppo una matita, non ho finito le chips, non ho sgualcito una camicia, non ho fatto un buco nelle scarpe, non ho perso il treno, non ho incollato male una foto, non ho colorato fuori dai margini, non ho finito il bloc-notes, non mi si è rotta un'ancia.

Qui stiamo parlando di cuori. Cuori stracciati, che lo possiate capire o meno – e, se meno, me ne dispiaccio al quanto. Cuori che possono essere ricuciti – come i pantaloni di prima, rattoppati e curati solo dalla tenerezza dei ricordi portati dal tempo. E, quanto tempo, cari miei, fino a prova contraria, lo decidiamo ancora noi.

Questo, se non è chiaro, non significa che un amico a quattro zampe non varcherà di nuovo il nostro cancello. O che non possa farlo presto – non so voi, ma io credo che lo farà. È luogo comune ma anche gran verità, che chi ha provato un certo tipo di amore, non riesce più a tornare indietro. Ma quando succederà, non sarà una sostituzione, non porterà lo stesso nome, non avrà le stesse abitudini, non avrà lo stesso sguardo, non vorrà essere un dimenticare, un passare sopra, un cancellare. Sarà un'esperienza nuova e quanto più indipendente – salvo per i preziosi suggerimenti che ci hai dato, Zuchi! - e porterà con sé tante emozioni. Magari simili ad alcune già vissute, ma mai uguali.

Quindi mettetevi bene in testa, dal primo all'ultimo, che anche io sono simpatica, d'accordo, ma se state cercando uno dei miei zii, in me non lo troverete neanche col lanternino e, soprattutto che non ho perso un ombrello – ma essendo la mia pazienza limitata – non lamentatevi poi se finirò col mostrarvi che, per non perderlo, bisogna tenerlo in un certo modo.


venerdì 4 ottobre 2013

The art of racing in the rain - Caro Denver,

Ti avevo fatto tante promesse, ti ricordi? Saresti stato meglio, l'Ale saremmo andati a trovarla come una vecchia amica e non per farci curare, saresti di nuovo andato in montagna e a racchettare, avresti di nuovo corso come una scheggia, saremmo tornati ad allenarci insieme, avresti potuto mangiare cose buone e inseguire ancora le tue amate pecore. Spero con tutto il cuore che, prima o poi, potrai perdonarmi di non avere saputo mantenerne nemmeno una.

Lo sai meglio di me, abbiamo vinto la ruota della sfortuna. Ci siamo guadagnati una nemica rara, subdola, viscida e, purtroppo, ancora imbattuta. Una nemica che, per la prima ed unica volta, nemmeno insieme siamo riusciti a fermare. Lo so, Denver, che ti stai chiedendo perché proprio a te. Me lo chiedo ancora anche io, sai, ogni giorno, con insistenza, dal luglio scorso, e ogni minuto da quel maledetto martedì di fine settembre. Non riesco a trovare una risposta, probabilmente non la troverò mai. Qualcuno mi ha detto che le cose brutte capitano solo a chi è abbastanza forte per affrontarle e rivoltarle poi, col tempo, a proprio favore. Io credo che sia a dir poco stupido, ignobile e ridicolo che ciò possa accadere davvero. Non so se ci sia e chi sia quel tipo che ha il compito di tirare i fili, Pi, ma ad ogni modo, credi a me, non dev'essere uno tanto sveglio. Qualcuno dovrebbe spiegargli che, nel ventunesimo secolo, non è possibile, anzi è completamente inconcepibile che l'amore non conti ancora nulla. L'amore non conta nulla alla corte di chi giudica (ma non per noi, tranquillo, Pipino), hai capito? Nulla: non importa quanto ne dai, non sarà mai abbastanza e questo è profondamente ingiusto. A lui, o a chi per esso, gira il cinque minuti e rovescia addosso il sistema fognario dei rapaci notturni di tutto il fantabosco al primo che incrocia. Ma tu ascoltami bene, Pi, - e so che lo farai, come facevi sempre – non pensare mai – capito, mai – di essertelo meritato, che possa essere stata in qualche modo una punizione. Non te lo meritavi, Pi. Non te lo meritavi per niente. E credo che non ce lo meritavamo neanche noi. Anzi, sono sicura.

Sei stato un vero guerriero sempre ma innegabilmente e soprattutto negli ultimi mesi: hai reagito e resistito, ogni volta che tutto sembrava perso, che le statistiche parlavano chiaro, che le probabilità erano nulle. Hai lottato come un leone. Fino all'ultima ora. Hai voluto tornare a sorridere e a farti brillare gli occhi per un weekend intero. Hai voluto rispedirmi a Lucerna con la faccia piena di leccate – cosa che non facevi mai: a me come a te, i saluti non sono mai piaciuti - prima di congedarti da noi per sempre. Non te ne sarò mai abbastanza grata.

Hai sempre avuto coraggio, tu. Coraggio di guardarci negli occhi e nel cuore, di ascoltare, di capire e, se necessario, fare ancora di testa tua. Ma li vedrà, la gente, tutti quei Border-Collie-macchinetta con problemi psichici e fisici, schiacciati per terra o impazziti dietro una pallina, sfruttati mentalmente fino all'esaurimento nervoso, con il solo scopo di eccellere in una delle numerose discipline sportive che, a guardarle da fuori e comparate con i problemi di questo mondo, sono persino ridicole? Tu non eri uno di quelli. Non abbiamo mai voluto che lo diventassi, nemmeno per un minuto. E mi spiace che ancora e sempre più, ci sia gente incapace di guardare negli occhi il proprio cane e farsi suggerire cosa davvero sia meglio per lui. A te l'agility piaceva tanto, ti piaceva anche l'obedience e ti piaceva girare intorno alle pecore. A dire la verità ti piaceva fare tutto, purché fosse con uno di noi, meglio se con me. Se ce ne fosse bisogno, vorrei dirti che la cosa era reciproca. Eri un cane tranquillo ed equilibrato, dal portamento fiero, ma buono come il pane sbirulino. Con due occhi ambrati che non dimenticherò mai e la “C” di croccante stampata sulla schiena. La coda – salvo nelle immediate vicinanze di greggi – a banderuola, contro ogni standard di razza. Eri uno che conosceva una varietà di trucchi e stupidaggini da fare invidia al circo; mente vasta, acuta e brillante. Eri ubbidiente e ci facevi sempre fare bella figura ma ti piacevano, come a me, le buone maniere. Sapevi dire di no, se necessario. Sapevi insegnare e far ragionare, Pi. Sapevi insegnare a parlare con te, a capirti, a darti fiducia e, soprattutto, a volerti bene. E tutto questo lo sapevi rivoltare con grande maestria non solo sul tuo io, ma anche sul nostro: ci hai riportato la fiducia in casa, Pulci, la dolcezza infinita, la forza di conoscere, capire, ascoltare, lottare, volere e volersi bene, apprezzare sé stessi e gli altri, perdonare. Il silenzio e la pazienza. L'amicizia vera e indissolubile. Spero che riusciremo a mettere in pratica tutto quello che ci hai insegnato anche solo con una punta di quella precisione e di quello spirito che tu mettevi nelle cose - ormai insignificanti - che ti avevamo insegnato.

E un'altra cosa, Nasone. Ascoltami bene. Probabilmente anche lassù, in questi giorni per noi tristi e vuoti come mai, ti sono arrivate le voci di chi è riuscito a formulare il pensiero che, in fondo, eri “solo un cane”. Non ascoltarli, Pulci, perché io ho sempre sognato “solo un cane” come te. Mi hai fatto crescere e sei cresciuto con me, sette passi avanti, come tuo solito. Rimani un dono prezioso che non perderò mai. Mi hai dato la chiave per aprire la porta del cuore del mio prossimo compagno a quattro zampe, anche se mai nessuno potrà sostituirti. Tu, il mio “solo un cane”; colui che mi ha insegnato l'umanità che mi permette, oggi, di non essere “solo una donna”. Grazie, Denver.

Sai, una leggenda mongola dice che quando un cane muore viene sepolto in cima a una collina, dove le persone non possono raggiungerlo, in modo che il grande spirito dei cani possa sussurrargli all'orecchio il suo desiderio che egli ritorni come un uomo nella sua prossima vita. Prima che si reincarni, l'anima del cane è libera di viaggiare e correre per tutto il tempo che vuole. Me l'ha raccontato il vecchio Enzo che, a sua volta, l'ha sentito al National Geographic Channel: dev'essere vero.

Ma non tutti i cani ritornano – dice – solo quelli che sono pronti.

Tu sei pronto.

Prenditi il tempo che ti serve.
Qui intanto facciamo tesoro di quello che ci hai lasciato, parliamo di te, anche se a volte ancora con gli occhi gonfi. Ce la facciamo, Zucus, solo per te.

Ti aspetto, Zuchi.
E fino ad allora, ci sentiamo in linea diretta ..come al solito.
Grazie di tutto.












Canine Intestinal Lymphangiectasia

Denver, my best friend and Border Collie ended is valiant fight against the Canine Intestinal Lymphangiectasia on 24th September 2013. I'm still looking for any kind of information, experience, testimony about this disease. If you have one, or some questions, please do not hesitate to contact me.
Please share this post. THANK YOU.

martedì 30 luglio 2013

Il raddoppio della galleria

Ho detto vado. Esco prima dell'alba, le solite cose nella borsa. Ho detto adesso faccio come se da qui non fossi mai passata, come se queste non fossero le solite strade. Le stesse che sentono il rumore dei miei passi da un bel po' di anni. Ho detto faccio finta. Faccio finta di essere una arrivata qui per caso. Tipo una di quelle che scende dal bus e ha mezz'ora per capire qualcosa di un posto. Facile! Riguardo la mia città, me la riguardo come se non fosse mia, che dite? Che poi non lo è neppure. Non lo è mai stata, mi sa. Ho detto vedo che succede. L'entusiasmo iniziale stava già andando a farsi benedire ancora prima di entrare nel vivo, per la verità appena suonata la sveglia. Ma uno mica si lascia scoraggiare, no. Poi va per cercare una cosa e immancabilmente ne trova altre, succede più o meno sempre così. Per dire.

Piccioni da combattimento, reduci di guerra. Collegiata come San Marco e tutta La bellezza di Vecchioni che non si scrolla di dosso. Writer pessimi, veramente pessimi, mamma mia, ma un graffito che sia uno, magari decente, in questa città, lo si trova? Un binario che mi son sempre chiesta come diamine faccia a chiamarsi ottocentonove, o otto o nove o hai copiato sbagliato. Un orologio alla paese delle meraviglie che segnava il tempo anche in un caldo mercoledì sera di qualche settimana fa. La piazza della foca che poi, in realtà, sarebbe dell'otaria. Otaria, capito? Dal greco, perché la g'ha i urecc! Un figo di spazzino, una calza su, l'altra glie l'avevano fatta cascare già prima delle sette. Porfido, sempre in. Lattine d'accordo con te, grazie. Leoni d'oro e d'argento e facce che non conosco. Se avete sete, non andate a cercare rubinetti dalla signorina tra governo e teatro. Pane niente, siamo ancora chiusi, ma per la messa in piega, possiamo ragionarci. Il sottile razzismo dei cartelli che si rispondono come ragazzini incazzati. I giornali in prima linea che parlano altre lingue. E un tipo in tuta fosforescente con una borsa patriottica al 100%, che poi siam qua alla festa: a me non mi prendere giù che non ne vale la pena. Ohi se ne sarebbe valsa! E la luna, la luna. E il cielo, che cielo.

Non mi avessi offerto il caffè, in cambio di uno sguardo sulle fotografie, non ti avrei più scritto. Però la gatta dei vicini ci ha messo del suo e quindi ti ho trovato, al solito tavolino, tra le sette e le otto. Impossibile, avresti detto. E anche io.
E Infatti. Ad ogni modo, ti avessi trovato, avrei detto sicuro qualche stupidaggine. Prima tra le quali, una che ho pensato per tenermi allegra durante la mia spedizione: le appenderò in galleria. Una galleria in galleria. Benedettini. E visto che mi sono fatta prendere un po' troppo la mano. Mi sa che ci vuole il raddoppio.

Gli scatti sono in ordine cronologico e per tutti vale il solito © 2013 scàja
In fondo, questa è la prima serie pensata, voluta. La regalo a chi ancora conosce il valore e la forza del tempo, del dettaglio e dello sguardo. E la dedico a chi me la ricorda ogni giorno.



































sabato 6 luglio 2013

tredici minuti

A volte non sarebbe male avere dei binari e pezzi da staccare per essere più leggeri. La gente che ti aspetta con impazienza. E viaggiare, viaggiare, viaggiare, conoscere. E chi ti perde si dispiace e chi ti vede ti saluta. Pure ai treni lasciano commenti, colorati, sulle facciate scolorite, mentre io, io, parlo da sola. 

© 2013 scàja

© 2013 scàja

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@ 2013 scàja

© 2013 scàja

© 2013 scàja

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