venerdì 31 maggio 2013

Kham


Era un giorno piovoso, com'è quello di oggi qui a Lucerna e come sono, spesso, i maggi bellinzonesi. Il menù, a seguire un paio di scarpe da ginnastica più esperte, armate di videocamera, allegria, inventiva e pazienza, prevedeva l'assaggio di una briciola di un mondo nel mondo. Un mondo che facciamo correre in parallelo al nostro, ma che vive un po' in ognuno di noi. Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria - contraria alla diseguaglianza, all'ignoranza, alla pigrizia - col suo marchio speciale di speciale disperazione, per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità. Forse ve ne ricorderete; ve ne avevo già parlato, un po' qui e un po' lì, quando ho aperto questo blog. 

Due anni, giorno più, giorno meno, dall'ultima volta che ci siamo visti, due anni, mese più, mese meno, da quando per legge - con le contraddizioni del caso, nel nostro cantone, non c'è più posto per voi. Alcune delle vostre domande ancora mi solleticano la mente, di tanto in tanto, riportando a galla sia l'amarezza che i sorrisi. Tanti sorrisi, tutti quei sorrisi; il sole, kham, nella pioggia di maggio. Mi ricordo perfettamente tutte le richieste, le promesse: "imparare... andare... conoscere...". Troveremo il tempo e il modo per mantenerle. Mi ricordo i sogni, i giochi, le storie, i pensieri, le domande, le curiosità, l'impazienza, la furbizia. Mi ricordo che, d'un tratto, con un'espressione tra il soddisfatto e l'incredulo, il mio, di piccolo maestro, mi aveva concesso di saper fare un'unica cosa "meglio" di chi a loro aveva regalato molto più tempo, molto più spazio, molto di più: avevo memorizzato più parole in romanès. E allora, l'unica cosa che posso fare intanto che aspetto un qualche splendido giorno è non dimenticarmele e magari impararne di nuove, per sfoggiarle tutte, tutte quante, intorno al prossimo tavolino, sotto una tenda a righe, con la pioggia che picchietta leggera, scandendo con dolcezza i giorni passati e cullando tutte le storie che avrete ancora da raccontare.

"I řomani čhib si jekh but purani, patjivali, barvali taj zorali čhib. 
Odoleske, ma bistren la: kon bistrel la, bistrel pes."

La lingua rom è una lingua molto antica, nobile, ricca e forte.
Perciò, non dimenticatela: chi la dimentica, dimentica sé stesso.
(Janardhan Pathanja)



giovedì 30 maggio 2013

Un pazzo

La cosa interessante di questi treni squadrati e sbiaditi, mangiati piano piano da pioggia e vento, sono le finestre. Le finestre di questi treni si possono ancora aprire. Si aprono come occhi in mezzo alla notte. Come braccia in mezzo alla tempesta. Ti alzi in piedi, allunghi le mani, ti aggrappi come puoi e tiri con forza in giù il vetro che immancabilmente fa resistenza. Poi, proprio quando stai per mollare la presa, si spalanca di colpo, si lascia cadere, con una ventata che fa girare le pagine dei giornali abbandonati sui sedili, fa andare fuori posto i parrucchini, fa alzare la voce a chi si racconta la giornata.

Il vagone è completamente vuoto. Nessuno, nessuno ad ascoltare il frastuono del mio finestrino, solo io. Fuori è sera e fa freddo, anche se visto il giorno sul calendario, non dovrebbe più essere così. A me piace il freddo, piace l'acqua quando scende come corda, piace il rumore del temporale e le luci che giocano a prendersi. Il caldo no, non lo sopporto, perché poi la gente sui treni apre i finestrini. E sai che baccano. Un casino, giornali, capelli, cappelli, telefoni. Per carità.

L'ultima volta che ne ho aperto uno stavo per lanciarci fuori un astuccio di pelle. L'ultima volta che avrei voluto aprirne uno - ma c'era troppa gente - era per far scendere la capra. Non faccio in tempo ad aprire che vola, poco distante, nel corridoio, un cartoncino, forse una cartolina, l'unica cosa che si lascia disturbare dalle mie mosse. Ritiro su il finestrino, mi alzo e vado a raccogliere quel che ho fatto cadere. Un foglio color panna, dal primo lato che mi viene a mano. È datato il giorno stesso, da una grafia in corsivo, morbida, le consonanti allungate e le vocali tonde.

Ho raccolto le cose più ridicole, preziose, nuove.
Ho trovato oggetti di cui nemmeno sapevo il nome,
come accadeva per i loro proprietari.

Neanche in quei giorni, Vitamia.

Ma io so chi sei. Io lo so chi sei.
So dove stai andando.
E so che non ti puoi permettere di lasciare tutto, sul treno.
Non puoi lasciare il cuore, su un treno.
Non lasciarlo mai sul mio treno.

Ci vediamo, sabato.

P.S. La gamba l'ho lasciata a Sander, sì, il Vecchio.
Dice che potrebbe servire al suonatore stanco,
che riposa attraccato accanto alla sua barca.
Dice che glie ne manca una,
dice che con l'altra tiene il tempo.

Sul davanti una fotografia opaca e ben inquadrata, secondo la regola dei terzi. Un arcobaleno dentro l'altro. In basso, scritto con un pennarello indelebile, di quelli che sanno di buono quando togli il tappo, ma dopo un po' ti fa male la testa: solo i sogni non dormono mai.

È un pazzo. Cosa vuole da me? Come diamine faceva a sapere che sarei salita oggi e proprio qui? Un pazzo. E dov'è? E che diamine dice, e chi si pensa di essere, non sa chi sono, non lo sa per niente. E Sander? Un pazzo. Conosce Sander, chi gli ha raccontato di lui, di me? Insomma l'ha trovato. Sapevo che l'avrebbe trovato, peccato che sabato non prenderò nessun treno, proprio non mi muovo, poco male. Un pazzo. Però se ha scattato lui la foto, almeno ci sa fare. Un pazzo bravo con la macchina e pure con la penna. E i sorrisi, d'accordo, anche con i sorrisi. Ma col cavolo che sabato mi vede, neanche di nascosto. Endstation, bitte alle aussteigen.

lunedì 20 maggio 2013

VITAMIA

Apro gli occhi che è già ora di scendere, il treno si sta fermando, lo stomaco ancora no, siamo in perfetto orario, pünktlich. Raccolgo le mie cose e mi metto in fila per scendere, finalmente. L'aria fredda ti investe una volta scesi i due gradini e rimessi i piedi a terra, borbotta con voce gracchiante, senza perdere un attimo, che i vagoni a cui tocca inghiottirti per l'ultima tratta sono già pronti e affamati. Binario cinque, venti e quattordici, le prime due carrozze vanno solo fino alla prossima stazione - saranno vecchie, saranno stanche, saranno forse solo furbe - muoviti o ti lasciamo qui, tu, la capra e, se insisti, pure i cavoli che porti in valigia.
Mi spetta un posto consumato da troppi sederi, accanto al finestrino, nel primo scompartimento a sinistra - in Fahrrichtung, links, ancora vuoto.
Dall'altro lato del corridoio un uomo e una donna che, rigorosamente a turni alterni, si lanciano occhiate da dietro i propri giornali, aspettano di vedere chi tra loro scenderà per primo.
Il controllore cammina svelto lungo il corridoio, trafficando con la borsettina rossa: vuole vedere tutti i biglietti, alle billette bitte, che è poi anche bello da pronunciare, voglio dire. Signor controllore, io le mostro il mio abbonamento, ma lei ripeta cinque volte e cinque volte più veloce, se ce la fa, alle billette bitte, bitte alle billette. Ce la fa?
Guardo fuori, lo stomaco sembra permettermelo, per il momento. Sono capre, prima, che quasi quasi mi alzo e visto che non gli piacciono gli scioglilingua, per fargliela, tiro il freno a mano, to stop the train e faccio scendere la mia di capra, in cases of emergency. Forse poi seguo il tuo consiglio, just pull down the chain, le lascio anche i cavoli. Poi sono le mucche da cartolina in un verde sconfinato e prepotente, che riempie tutto il finestrino. E in mezzo al verde un cerbiatto che alza la testa al nostro passaggio, le corna di velluto.
Scartiamo la collina, siamo quasi arrivati. Il cielo non sa nemmeno lui come sta, neanche il mio stomaco, la capra però è contenta. L'uomo sta facendo le parole crociate, la donna legge una rivista in francese. Si stanno perdendo uno spettacolo senza pari. Un occhio azzurro sbircia là in fondo, in un cielo nero. Il lago artificiale ferma le piante, le piante guardano il lago, un po' come i due di fianco a me, impegnati ad ignorare il nero, non vedono nemmeno che sopra le loro teste hanno un arco. due. Due archi, uno dentro l'altro, pieni di colori, comparsi in un baleno, è il caso di dirlo. Pieni, da lì a lì, sull'altopiano, verde, verde come prima, più di prima. Immenso, favoloso. E una luce gialla, di quelle tra sole e tempesta. E l'occhio là in fondo, fa l'occhiolino.
Guardami. So essere anche io bella. Posso riempirti gli occhi. Rossogialloverdeviolarancioeblù. Urla, questa città, urla la sua periferia, in tutta la sua innegabile bellezza. Urla forte. Guardami. Ora. Amami. Ora. Un tuono, un lampo e poi sole basso. Una cima piena di neve si fa spazio, gli occhi azzurri sono due.
Siamo arrivati. Mi giro di colpo, i due a fianco a me non ci sono più, sono già davanti alla porta, uno dietro l'altro, lei è stata più svelta. Dicevo, siamo arrivati, no, non lo dicevo io. È un uomo con gli occhiali e una giacca nera sopra la divisa, baffi grossi e occhiali fini. E sotto i baffi forse sorride, forse no. Che diavolo ha lì? Una gamba, dice, una sinistra. Forse finalmente è quella giusta, era nell'altra carrozza. Ma lei non è quello di prima. No, io so recitare la cosa dei biglietti. E so che la tua capra ci sa fare, quando sta sopra la panca. Devi scendere. Mi allunga una mano.
Ha visto, voglio dire, lo spettacolo? Ma lui è già avanti. Intanto il cemento ha inghiottito le immagini, puntuale anche stavolta. Ci sappiamo proprio fare con i treni, anche con l'hockey dice. Okay. Aspetta, prima io. Eppure dicevano che quelli un po' più in là con gli anni conoscessero il bon ton, ma dimmi tu. Salta i gradini, appoggia la gamba, quella finta, e poi mi allunga di nuovo la mano sinistra. Ha un anello al dito e una moglie dove finiscono i binari.
Le donne nelle stazioni, c'è sempre qualcuno che le aspetta, mi dice. Le capre no. O almeno non credo. Adesso vai, vai che è tardi. Ci rivediamo al ritorno, usa i colori per dipingere qualcosa di bello. Venerdì torniamo a casa, non ti preoccupare, avremo altri giorni, vitamia.
Adesso mi sembra di sì, sì, sono sicura, sotto ai grossi baffi, sta sorridendo, sorride anche dietro gli occhiali fini. Solo i sogni non dormono mai. Sparisci.

No, aspetti. Ehi! Si fermi!
Una volta ho conosciuto un tizio,
mi ha detto che il manico di una chitarra,
in fondo, sembra una ferrovia,
è una ferrovia.
Lo so.
Solo i sogni non dormono mai.

Lo so.
(c) 2013 scàja




mercoledì 8 maggio 2013

Il canto del cigno, quello originale


Se fossi un cigno del lago Lemano /
beccherei il pane di mano.
Se fossi un cigno del lago Maggiore /
nuoterei per ore e ore.
Fossi un cigno del lago Sereno /
sarei buono, soprattutto ripieno.

Ma essendo io dei Quattro Cantoni /
non rompetemi..... le uova.

domenica 5 maggio 2013

È a sapere

"È incredibile come si senta già chi è il suo maestro." Così, mi dicono, sentenzia la bacchetta più famosa del Ticino. E al mio "quale dei due?" sentirsi rispondere un terzo nome, totalmente inaspettato. Un nome che trasforma quel "già" in un "ancora". E un "ancora" che vuole più che mai trasformarsi in "àncora".
Non so se in bene o in male, per lui, per voi. So che a me riempie il cuore sapere che nel mio sax abbiate trovato un po' del suo. So per certo che non dimenticherò quello che mi ha dato, umanamente, musicalmente. So per certo che non sarebbe andata così, non l'avessi incrociato su questa strada. E so esattamente che non vedo l'ora di poter lavorare, di nuovo, insieme a lui.

Che abbiate ritrovato un po' di lui,
non solo sul mio collarino.
Questa, questa qui, è la mia vittoria.