lunedì 20 maggio 2013

VITAMIA

Apro gli occhi che è già ora di scendere, il treno si sta fermando, lo stomaco ancora no, siamo in perfetto orario, pünktlich. Raccolgo le mie cose e mi metto in fila per scendere, finalmente. L'aria fredda ti investe una volta scesi i due gradini e rimessi i piedi a terra, borbotta con voce gracchiante, senza perdere un attimo, che i vagoni a cui tocca inghiottirti per l'ultima tratta sono già pronti e affamati. Binario cinque, venti e quattordici, le prime due carrozze vanno solo fino alla prossima stazione - saranno vecchie, saranno stanche, saranno forse solo furbe - muoviti o ti lasciamo qui, tu, la capra e, se insisti, pure i cavoli che porti in valigia.
Mi spetta un posto consumato da troppi sederi, accanto al finestrino, nel primo scompartimento a sinistra - in Fahrrichtung, links, ancora vuoto.
Dall'altro lato del corridoio un uomo e una donna che, rigorosamente a turni alterni, si lanciano occhiate da dietro i propri giornali, aspettano di vedere chi tra loro scenderà per primo.
Il controllore cammina svelto lungo il corridoio, trafficando con la borsettina rossa: vuole vedere tutti i biglietti, alle billette bitte, che è poi anche bello da pronunciare, voglio dire. Signor controllore, io le mostro il mio abbonamento, ma lei ripeta cinque volte e cinque volte più veloce, se ce la fa, alle billette bitte, bitte alle billette. Ce la fa?
Guardo fuori, lo stomaco sembra permettermelo, per il momento. Sono capre, prima, che quasi quasi mi alzo e visto che non gli piacciono gli scioglilingua, per fargliela, tiro il freno a mano, to stop the train e faccio scendere la mia di capra, in cases of emergency. Forse poi seguo il tuo consiglio, just pull down the chain, le lascio anche i cavoli. Poi sono le mucche da cartolina in un verde sconfinato e prepotente, che riempie tutto il finestrino. E in mezzo al verde un cerbiatto che alza la testa al nostro passaggio, le corna di velluto.
Scartiamo la collina, siamo quasi arrivati. Il cielo non sa nemmeno lui come sta, neanche il mio stomaco, la capra però è contenta. L'uomo sta facendo le parole crociate, la donna legge una rivista in francese. Si stanno perdendo uno spettacolo senza pari. Un occhio azzurro sbircia là in fondo, in un cielo nero. Il lago artificiale ferma le piante, le piante guardano il lago, un po' come i due di fianco a me, impegnati ad ignorare il nero, non vedono nemmeno che sopra le loro teste hanno un arco. due. Due archi, uno dentro l'altro, pieni di colori, comparsi in un baleno, è il caso di dirlo. Pieni, da lì a lì, sull'altopiano, verde, verde come prima, più di prima. Immenso, favoloso. E una luce gialla, di quelle tra sole e tempesta. E l'occhio là in fondo, fa l'occhiolino.
Guardami. So essere anche io bella. Posso riempirti gli occhi. Rossogialloverdeviolarancioeblù. Urla, questa città, urla la sua periferia, in tutta la sua innegabile bellezza. Urla forte. Guardami. Ora. Amami. Ora. Un tuono, un lampo e poi sole basso. Una cima piena di neve si fa spazio, gli occhi azzurri sono due.
Siamo arrivati. Mi giro di colpo, i due a fianco a me non ci sono più, sono già davanti alla porta, uno dietro l'altro, lei è stata più svelta. Dicevo, siamo arrivati, no, non lo dicevo io. È un uomo con gli occhiali e una giacca nera sopra la divisa, baffi grossi e occhiali fini. E sotto i baffi forse sorride, forse no. Che diavolo ha lì? Una gamba, dice, una sinistra. Forse finalmente è quella giusta, era nell'altra carrozza. Ma lei non è quello di prima. No, io so recitare la cosa dei biglietti. E so che la tua capra ci sa fare, quando sta sopra la panca. Devi scendere. Mi allunga una mano.
Ha visto, voglio dire, lo spettacolo? Ma lui è già avanti. Intanto il cemento ha inghiottito le immagini, puntuale anche stavolta. Ci sappiamo proprio fare con i treni, anche con l'hockey dice. Okay. Aspetta, prima io. Eppure dicevano che quelli un po' più in là con gli anni conoscessero il bon ton, ma dimmi tu. Salta i gradini, appoggia la gamba, quella finta, e poi mi allunga di nuovo la mano sinistra. Ha un anello al dito e una moglie dove finiscono i binari.
Le donne nelle stazioni, c'è sempre qualcuno che le aspetta, mi dice. Le capre no. O almeno non credo. Adesso vai, vai che è tardi. Ci rivediamo al ritorno, usa i colori per dipingere qualcosa di bello. Venerdì torniamo a casa, non ti preoccupare, avremo altri giorni, vitamia.
Adesso mi sembra di sì, sì, sono sicura, sotto ai grossi baffi, sta sorridendo, sorride anche dietro gli occhiali fini. Solo i sogni non dormono mai. Sparisci.

No, aspetti. Ehi! Si fermi!
Una volta ho conosciuto un tizio,
mi ha detto che il manico di una chitarra,
in fondo, sembra una ferrovia,
è una ferrovia.
Lo so.
Solo i sogni non dormono mai.

Lo so.
(c) 2013 scàja




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